Giuseppe Romano presenta La terra dell’indio

La lingua scritta possiede una magia particolare grazie alla quale si fa avanti da sola e da sola conquista l’attenzione. Diversamente dalle parole orali, dove soccorrono intonazioni, espressioni del volto, gesti, perfino componenti ambientali, le parole fissate sulla pagina vivono e si esprimono in solitudine, nero su bianco. Un film o un’opera teatrale possono avvalersi pure di aspetti estrinseci, tipo la qualità della fotografia o le armonie della colonna sonora.

Un libro, un romanzo, non ha armi che non siano le sue parole. La terra dell’Indio è un romanzo che infrange l’etichetta dei romanzi. Sconcerta il lettore presentandosi con un aspetto inconsueto, esteriormente simile a una partitura teatrale o a una sceneggiatura cinematografica. Alla voce narrante subentrano notazioni di regia. L’agire dei personaggi è rappresentato con dialoghi recitabili. La sequenza dei capitoli è tradotta in “scene”, ora lunghe ora corte ora cortissime.

Per dirimere le eventuali perplessità conviene intraprendere immediatamente la lettura. La lettura spiega tutto. I libri (almeno, quelli dove il racconto funziona) si spiegano da sé, leggendoli. Ed Eugenio Corti, l’autore de Il cavallo rosso, certo non teme la prova della lettura. Se volete capire e amare La terra dell’Indio – un romanzo, un nuovo grande romanzo -, leggetelo. Subito, tranquillamente e per intero.

Resta però la possibilità (magari l’opportunità) di soffermarsi brevemente sulla soglia. Non per giustificarlo né per “introdurlo” ma, letteralmente, com’è detto in capo a questa pagina, per presentarlo, per far presente quel minimo di elementi e illuminare non il romanzo in sé, bensì il contorno.

Anzitutto, l’autore. Ci troviamo davanti a un itinerario creativo approdato da tempo alla maturità, che può vantare solidi esiti su svariati versanti: quello diaristico con I più non ritornano, quello saggistico con L’esperimento comunista e Il fumo nel tempio, quello teatrale con Processo e morte di Stalin, quello narrativo con Il cavallo rosso e Gli ultimi soldati del re. Proprio Il cavallo rosso, imponente capolavoro storico e creativo, è l’opera più diffusa e più universalmente apprezzata di Corti. Sono tredici edizioni in quindici anni, raggiunte senza quasi pubblicità, con l’aiuto silenzioso del passaparola di lettore in lettore. Un caso letterario che ha felicemente imboccato la strada del longseller, del classico destinato a sopravvivere al tempo in cui fu scritto.

Ed è bello e sintomatico constatare come la stessa avventura si ripeta tal quale all’estero, man mano che le traduzioni varcano i confini italiani: dopo le edizioni spagnola e lituana, l’edizione francese apparsa nell’aprile 1997 (in attesa delle imminenti traduzioni giapponese, americana e romena) ha suscitato oltralpe un dibattito serrato sul valore del romanzo e della scrittura. Credo di fare cosa gradita ai lettori italiani riportando alcuni dei giudizi apparsi sulla stampa francese:

“I libri davvero grandi” scrive Benoit Maubrun su L’Homme Nouveau, “sono rari. Ed è evidente che con Le cheval rouge dell’italiano Eugenio Corti ci ritroviamo al cospetto di uno di quei monumenti che marcano un’epoca… Contiene una terribile requisitoria storica contro la follia omicida del XX secolo preso tra due demoni, il nazismo e il comunismo… Crisi della società, crisi della Chiesa. Due direttrici di questo romanzo che, in millecento pagine, ci conduce attraverso quarant’anni di storia italiana E’ il romanzo della verità che le ideologie totalitarie, ieri e oggi, cercano di imbavagliare… Ci si può chiedere in cosa risieda la forza e il successo di quest’opera immensa? Ci sono troppe qualità per farne una semplice contabilità. Ma una le riassume tutte: la fedeltà alla verità.

Jean-Marc Berthoud, scrittore calvinista di Losanna, ha indirizzato a Corti una Lettera aperta (sulla rivista Resister et construire): “Il suo libro ha come personaggio principale il Dio del Cristianesimo. Ed è in questo che esso possiede una originalità che non ci consente di paragonarlo a nessun altro… Leggendolo si nota bene che questa maniera cristiana di guardare la realtà è la sola veritiera; tutto il resto non è che illusione e nebbia di menzogna. Lei non fa che guardare con attenzione, discernimento e bontà, la vita degli uomini e del creato alla luce di Dio, e dice le cose in modo così giusto da farle diventare evidenti per il suo lettore. Esse appaiono così al lettore di buona volontà come naturalmente vere. Esse diventano per lui semplicemente incontestabili. Per me non c’è dubbio. Sul piano della creazione artistica questo secolo sarà contrassegnato da Il Cavallo Rosso come da un segno soprannaturale proveniente da Dio”.

“Con la sua forza e il suo ritmo”, ha scritto Jean-Pierre Rudin su Nice-Matin, “Il cavallo rosso ci ha conquistato. E’ praticamente impossibile staccarsene durante le numerose ore di lettura che ci impone. Quello che è certo è che è impossibile uscire indifferenti dalla lettura di quest’opera… Nello stesso modo in cui I promessi sposi fu il grande libro italiano del XIX secolo, “Il cavallo rosso”, malgrado Moravia o Sciascia, potrebbe essere benissimo “il” romanzo del nostro secolo che si conclude”.

In secondo luogo, i fatti raccontati. Il romanzo si concentra sull’ardita e lungimirante avventura missionaria dei gesuiti in America Latina, tradottasi nella creazione delle reducciones e sconosciuta ai più. Soltanto il film Mission, anni fa, ne aveva dato qualche sommaria cognizione al pubblico, per giunta in termini piuttosto fantasiosi. Ma la vicenda è importante: né più né meno che uno dei più riusciti e tempestivi casi di immedesimazione della fede nella cultura di un popolo, quello sudamericano dei guaranì, che rispose con vivace adesione al lavoro di pochi ed eroici missionari.

La storia dei gesuiti in Paraguay ha inizio nel 1609, dopo che un’ordinanza reale di Filippo III dà modo al governatore del Paraguay, Hernando Arias de Saavedra, di affidare all’ordine fondato da Sant’Ignazio tre territori da cristianizzare: uno all’ovest di Assunciòn fra i guaycuru, un secondo nel Paranà tra i guaranì, il terzo a nord del Paranaparé tra i guayra. La prima missione fallisce. Tra le tribù dei guaranì e dei guayra invece i gesuiti hanno successo fondando nel 1610 le prime riduzioni. Tra i guayra del nord fino al 1628 erano stabilite undici riduzioni, nove delle quali però tra il 1628 e il 1631 furono distrutte dai cacciatori di schiavi portoghesi provenienti dalla regione di San Paolo.

In seguito i gesuiti con 12.000 indios superstiti emigrarono verso sud. Qui avevano fondato fin dal 1610 numerose riduzioni presso i guaranì, specialmente tra i fiumi Paranà e Uruguay e dal 1628 pure sull’altra riva dell’Uruguay. Anche queste ultime, tuttavia, fra il 1636 e il 1638 furono distrutte dai paolisti, sicché questi indios si ritirarono a loro volta verso ovest nelle riduzioni dei guaranì. Così il territorio delle riduzioni gesuitiche del Paraguay ebbe i suoi confini definitivi, che rimasero stabili fino all’espulsione dei gesuiti (1767). A scopo di difesa contro le incursioni dei paolisti, il re di Spagna aveva permesso l’uso delle armi da fuoco agli indios delle riduzioni, i quali dal 1641 poterono così difendersi con successo contro di essi. Al loro apogeo, nel 1731, le riduzioni gesuitiche del Paraguay contavano 141.242 indios cristiani.

Dirette dai gesuiti ma interamente articolate su istruttori indigeni (c’erano due soli missionari ogni quattro cinquemila indios) le riduzioni, a differenza delle altre stazioni missionarie, avevano due centri: la chiesa e il collegio, situati una presso l’altro nella piazza centrale. Mediante l’istruzione scolastica e poi progressiva di tutti i cittadini, maschi e femmine, in queste piccole “città del sole” l’elevazione culturale e civile fu enorme. Venne elaborato un modello che sarebbe stato esportato in altri luoghi di missione dell’America e del mondo. Tuttavia questo fenomeno missionario di colpo si interruppe, soppresso d’autorità, in pratica da un giorno all’altro.

Questi sono, per grandi linee, i fatti storici.

Da questa realtà promettente ma presto estinta, missionaria però coloniale, generosa eppure crudele, è partito Eugenio Corti per scrivere La terra dell’indio. Come in Il cavallo rosso e in Gli ultimi soldati del re, la storia fornisce l’indispensabile basamento su cui poi si erge il racconto. Tanto più è certo e solido il fondamento, tanto più svettante e ardita la narrazione.

La vicenda narrata nel presente romanzo occupa un arco temporale che va dal 1740 al 1788, a cavallo dell’ultimo periodo di vita delle riduzioni. La riduzione abitata dai protagonisti è ubicata in pieno territorio guaranì: non è mai esistita, però è esemplificata su quelle reali. Ne apprendiamo innanzitutto la vita quotidiana: la chiesa, il collegio, la casa delle vedove, le abitazioni, i laboratori, disposti ordinatamente entro la pianta dell’abitato; e poi la suddivisione fra “terre di Dio”, da cui si ricava il necessario alla comunità, e “terre dell’indio, o dell’uomo”, che sostentano le singole famiglie.

Presto entrano in gioco elementi drammatici: la battaglia contro gli schiavisti portoghesi provenienti da oltre il fiume, in cui la sollecitudine fraterna e la disciplina hanno la sopravvento sulla cupidigia mercenaria. Poi, dopo anni di serenità, gli eventi prendono una piega sempre peggiore, incalzati da un’amministrazione coloniale ottusa e ingorda. La cacciata dei gesuiti segna il tentativo di estinguerne interamente la memoria e l’opera, comprese la cultura consegnata agli indios e le stesse riduzioni. I buoni debbono fuggire, nascondersi nella foresta.

Infine, vent’anni dopo, un viaggio di riscoperta induce quella catarsi così propria dei romanzi cortiani, dove quand’anche tutto possa apparire distrutto, nulla in sostanza è mai perduto (ma non è forse così anche il segmento di storia presente nel Vangelo?).

E il cerchio narrativo si salda, continuando un discorso intrapreso tanti anni fa.

Qui però c’è una differenza, uno scarto di novità. Mentre i romanzi precedenti facevano i conti con la storia e con la fantasia in maniera tradizionale, adesso viene introdotta una diversa misura di stile.

La storia c’è sempre, e continua a convivere con l’invenzione – ancora, viene spontaneo richiamare quell’invenzione del vero di manzoniana memoria -, tuttavia il contorno è cambiato così profondamente da indurre stupore.

Chi è questo Corti visivo fino alla visionarietà, che brandeggia la penna quasi fosse una telecamera, che dispone personaggi e ambienti in coreografie e li fa muovere su un proscenio immaginario?

Risposta facile: è il Corti di sempre. Il lettore perplesso tiri pure un sospiro di sollievo: lo scrittore è tutt’altro che nuovo alla visualizzazione dei contenuti che descrive, da quel Processo e morte di Stalin che è una pièce teatrale in senso stretto (e la rappresentò Diego Fabbri), a Il cavallo rosso che, guardacaso, al primo apparire Cesare Cavalleri aveva così definito: “1.280 pagine nessuna delle quali è superflua, scandite in brevi sequenze quasi di taglio cinematografico”.

E il fatto è che oggi, volendo rispettare la storia, non si possono più scrivere romanzi storici come scriveva Manzoni. Neanche lui scriverebbe più in quel modo. Come si fa oramai a certificare il “vero” e il “verosimile” sulla pagina, dopo che la tv prima e poi internet ci hanno insegnato che niente è mai come sembra? In questa contraddizione di fine millennio sta il genio della proposta a cui Corti ora dedica le sue più mature ed esperte energie creative.

Un romanzo che oggi voglia raccontare fatti veri, anzi, addirittura schierarsi per la verità, può/deve prendere in prestito le armi di quello stesso nemico che trent’anni fa l’aveva sconfitto: le armi dell’immagine. E’ come se l’autore dicesse al lettore: vieni e vedi tu stesso, usa gli occhi, guardati attorno.

Per cui, certo, La terra dell’indio è una proposta di sceneggiatura (e che film emozionante ne verrebbe fuori: qualcosa di veramente colossale), ma è anche un romanzo legittimo e moderno, che racconta in maniera epica e universalizzante fatti storici ignoti ai più. Così come a suo tempo fece Il cavallo rosso, inventando personaggi veri per illustrare una vicenda vera, trasfigurando la storia in epopea senza niente sottrarre allo svolgersi degli eventi. E, in più, inventandosi pure un linguaggio modellato sui nostri tic di turisti dello zapping, sui cortocircuiti logici del nostro immaginario contaminato da ore e ore di immagini in movimento, sull’inevitabile, imminente convergere di tutti i linguaggi e i canali dell’universo multimediale.

Un linguaggio che ci rintraccia, ci bracca, ci sfida con fermezza e approfitta del nostro momentaneo disorientamento per riportarci dolcemente a casa.

Alla narrativa non tocca di fermarsi ai fatti: quello lo fanno i saggi storiografici. Le compete illuminare i fatti con una filigrana di emozioni e di ragioni umane; dar loro vita costruendo un itinerario di personalità emblematiche, che inducono non soltanto a ripercorrerli, quei fatti, ma addirittura – qui scatta il miracolo del racconto – a riviverli. E così come questo ci era accaduto ne Il cavallo rosso con Michele, con Manno, con Ambrogio, con Alma e Colomba e con tanti altri, in La terra dell’indio ci succede con Nazareno e con Maddalena, con i tre “profeti”, con padre Marziale, con padre Paolo e con l’anziana Parascéve.

(Giuseppe Romano)